PREMESSA E RINGRAZIAMENTI
Milano, 15 Dicembre 1997
A metà Novembre sono stato invitato dal prof. Marco Somalvico, ordinario di Intelligenza Artificiale al Politecnico di Milano, a preparare un breve seminario che avrei dovuto tenere davanti agli allievi del suo corso ai primi di Dicembre. Tale seminario avrebbe dovuto vertere su Epicuro e concentrarsi principalmente sugli aspetti teoretici del pensiero del filosofo di Samo. Ben presto, resomi conto dell'esiguità delle fonti nonché della mia difficoltà a creare i necessari collegamenti con le tematiche più vicine all'Ingegneria della informazione e della AI, ho deciso di integrare il compito originario in uno di più ampio respiro, che gettasse lo sguardo sul tema generale dell'informazione e del paradigma rappresentazionale della conoscenza.
Ferme restando le caratteristiche e le finalità del lavoro,
necessariamente sintetico e di mera compilazione, ho accettato
l'invito a renderlo pubblico, così com'è, senza ulteriore
elaborazione. Sono infatti convinto che se esso cela in sé
qualche valore, lo ha solo in quanto capace di provocare uno
scambio dialettico di opinioni sulle tematiche che esso tocca pur
tanto sinteticamente. Le persone che volessero interessarsene e
che volessero condividere con noi critiche e opinioni a riguardo,
sono invitate ad esprimere le loro idee e posizioni, nonché a
presentare a loro volta quei contributi che reputassero
interessanti ai fini della discussione.
Ringrazio il succitato Professore Marco Somalvico per la
fiducia e l'entusiasmo con cui ha prima proposto e poi accolto
questo semplice lavoro, nonché Gianmarco Armellin per la cortese
disponibilità a rendere pubblico tale lavoro agli utenti del
'web'. Ovviamente rivendico come mia propria la non rara, invero,
facoltà di scrivere inesattezze nonché la capacità di spingere
l'ignaro lettore nelle braccia di Hypnos e Morfeo.
F.C.
Qualche riflessione sulla parola
INFORMAZIONE (e sulla sua storia...)
"Una scienza che trascuri il suo passato è destinata a ripetere i propri errori e non sarà in grado di visualizzare il proprio sviluppo"
[Varela F.J. et al., "La via di mezzo della conoscenza"]
Sono stato invitato a parlare di filosofia: la cosa mi avrebbe immediatamente fatto disperare, (e probabilmente avrebbe fatto disperare anche voi, dal momento che sono un semplice studente di Ingegneria Informatica) se non avessi visto in tale opportunità l'occasione di collegarmi, in maniera per certi tratti inusuale (almeno in questo contesto), con molti aspetti interessanti dell'informatica (e dirò di più, con gli aspetti più fondamentali di essa).
Una definizione generale di 'pensare' può essere 'esaminare col pensiero, raffigurarsi nella mente' [1] ; secondo Vernon Pratt pensare è, per noi sostanzialmente, un 'manipolare rappresentazioni'. Del resto i moderni cognitivisti usano il termine 'informazione' per indicare un concetto molto simile: il celebre filosofo emergentista Daniel Dennett è piuttosto chiaro a riguardo: "Una volta compresa la funzione delle menti (dei dolori, delle credenze, e così via), dovremmo essere in grado di realizzare menti (o parti di esse) con materiali alternativi dotati di quelle competenze. A molti teorici - me incluso - è sembrato ovvio che la funzione delle menti sia quella di elaborare informazione."[2]
Generalmente, però, non siamo sempre e totalmente consapevoli di quanto la nostra cultura, il nostro modo di pensare e... noi stessi dopo tutto, diamo per scontato ciò che intendiamo per 'pensare'. Per il senso comune 'pensare' è semplicemente 'vivere' in un mondo 'interiore', in un mondo che definiamo 'mentale' appunto per distinguerlo da un mondo 'reale', diverso da esso in una qualche sottile ma fondamentale maniera. Questa è una domanda fondamentale: in quale misura il mondo mentale è 'diverso' da quello reale? In quale rapporto è con esso? Ed esiste veramente una distinzione tra questi due mondi? E cosa significa l'avverbio 'veramente', in questo caso?
Per il filosofo Emanuele Severino, l'Uomo, pur cercando di mettere da parte il più possibile 'tare' e convinzioni imputabili alla propria educazione e cultura (la cosiddetta 'nurture') rimarrà pur sempre convinto, 'naturalmente' (e cioè per la sua propria 'nature'), di tre tesi fondamentali [3]:
1) Il mondo in cui viviamo e i suoi processi sono indipendenti da noi e dalla coscienza che ne abbiamo.
2) Il mondo in cui viviamo è esterno alla nostra mente.
3) Quando riflettiamo sul mondo, ciò che veniamo a sapere appartiene effettivamente al mondo sul quale riflettiamo.
"In definitiva il mondo è sì indipendente ed esterno alla nostra mente ma si mostra a essa, ossia è conoscibile in certi suoi tratti, sia pure limitatissimi "[4].
La questione si complica di molto quando si vuole ragionare, riflettere, proprio sul modo in cui si riflette e si ragiona: non possiamo evitare un pericoloso quanto affascinante 'gioco di specchi' in cui lo spettatore è spettacolo e colui che pensa è a sua volta oggetto di pensiero, e cioè è sottoposto ai medesimi modelli interpretativi che vengono applicati per conoscere il mondo 'esterno', consci o inconsci che siano. Per il senso comune, le cose sono piuttosto semplici: la nostra mente 'lavora' nel suo mondo, quello dei modelli e delle rappresentazioni, un po' come noi, il nostro corpo cioè, lavoriamo in quello reale, della materia e dei cinque sensi: nella nostra mente noi esperiamo, costruiamo, elaboriamo e manipoliamo (con le 'mani'dell'intelletto) oggetti mentali, copie, modelli, rappresentazioni, forme delle cose che stanno 'di fuori'. Lo stesso termine 'manipolare' è tutt'altro che fuori luogo: basti pensare alle parole che usiamo quotidianamente per indicare la nostra attività intellettiva: pensare deriva da pendere, in latino pesare attentamente con mano; capire deriva da capere, prendere; concepire deriva da cum-capere e lo stesso termine com-prendere è piuttosto autoesplicativo a riguardo...
Quanto è giusto questo modo di vedere le cose? Cioè, cosa c'è di vero, in esso? Non è nostro compito soffermarci ora su queste questioni, né dare un contributo originale a ciò che secoli di filosofia e decenni di scienza cognitiva (tra cui anche discipline tradizionalmente più 'sperimentali', come l'Intelligenza Artificiale...) hanno accumulato lungo la storia del pensiero occidentale (teoretico e non).
D'altro canto ci sembra cosa utile rendersi conto che il 'modello rappresentazionale' (questo è il nome che viene dato a ciò a cui il senso comune porta 'naturalmente') non è l'unico paradigma che si può dare riguardo all'umano conoscere; parimenti, ci sembra utile comprendere che è solo in tale paradigma che si dà lo 'spazio' concettuale necessario per poter rendere anche solo concepibile l'idea che i computer possano 'pensare' (qualsiasi cosa ciò voglia dire...). In questo senso ripercorrere lo sviluppo di tale idea fino alle sue 'origini' può essere interessante e proficuo, nonché utile come chiave di lettura del passato, per capire meglio e più in profondità il presente e quindi per poter progettare più consapevolmente il futuro.
Tali origini risiedono nel concetto di forma-idea come esso è stato elaborato nel pensiero di Platone e di Aristotele. Tale concetto, come era inevitabile che fosse, ha avuto una graduale evoluzione lungo i secoli: si arricchì e si consolidò nella scolastica e in Tommaso d'Aquino; quindi contribuì, attraverso una propria profonda trasformazione ad opera di Descartes e degli empiristi inglesi, a creare la base filosofica del 'pensare come ragionamento ed elaborazione simbolica', la meccanizzazione della quale costituisce l'origine storica e concettuale dell'informatica e dell'intelligenza artificiale (una seconda corrente prettamente filosofica e spiritualista, portò invece il concetto di Idea 'platonica' fino alla sua completa maturazione all'interno della metafisica Hegeliana). Noi qui non ci prefiggiamo certo il compito di tracciare una seppur concisa storia dell'idea... di Idea, ma bensì di dare dei punti, per così dire 'prospettici', da cui possa magari risultare più chiara l'interdisciplinarità della filosofia tradizionale con le scienze dell'informazione automatica. In particolare, il nostro fine sarà quello di ricollegarci, per quanto ne saremo capaci, con alcune delle idee generali che vengono presentate in quei corsi di Ingegneria Informatica che si interessano di modellizzazione della conoscenza e quindi alle modalità 'modellizzabili' di essa [5].
L'attenzione è allora, giustamente, indirizzata più sui fini che sulle origini, dal momento che ciò che ci si propone in tali discipline è niente di meno che l'affinamento di metodologie atte a sviluppare (e realizzare) artefatti (cioè macchine) che emulino il conoscere e che servano, oltre che a farci fare meno fatica e (si spera) a semplificarci la vita, per migliorare o incrementare l'efficacia di ciò che noi facciamo con il nostro cervello e con uno dei suoi prodotti più preziosi, e cioè la cultura (o 'conoscenza condivisa', tra cui annoveriamo sia la Scienza che la Tecnologia).
Il cammino verso le origini, d'altro canto, non presenta meno difficoltà, anche perché non solo richiede una certa familiarità con la storia delle idee filosofiche ma esige anche una attenzione particolare riguardo al loro sviluppo ed alla loro evoluzione, che una certa critica moderna vuole contestuale al mutamento della stessa società e cultura occidentale. Ciononostante, tale "cammino" può riservare altrettante sorprese e soddisfazioni e soprattutto essere, secondo la mia opinione, molto utile quando esso ci aiuti a svelare aspetti delle idee che usiamo tutti i giorni che altrimenti sarebbero stati difficili da vedere.
Infatti, la porta per intraprendere questo viaggio a ritroso
nel tempo e nella cultura passa abbastanza sorprendentemente per
il linguaggio che parliamo tutti i giorni e per parole di cui
abbiamo ormai dimenticato il senso più profondo, e cioè, di cui
trascuriamo inconsapevolmente il senso originario. Questo avviene
poiché la nostra lingua, e questo è riscontrabile anche nelle
parole più comuni e frequenti, ha forti radici nella lingua
greca, così come la nostra cultura è fortemente permeata della
cultura greco-ellenistica come essa si è sviluppata (soprattutto
dal punto vista speculativo dei suoi più notevoli pensatori) nei
primi sei secoli prima di Cristo. Come dice Severino:
"[il pensiero greco] sta alla base dell'intero sviluppo
della civiltà occidentale, e le forme di questa civiltà
dominano ormai su tutta la terra e determinano perfino gli
aspetti più intimi della nostra esistenza individuale. [...]
Arte, religione, matematiche, e indagini naturali, morale,
educazione, azione politica ed economica, ordinamenti giuridici
vengono ad essere avvolti da questo spazio originario [aperto
dalla filosofia greca, e così...] il cristianesimo e il
linguaggio con cui la civiltà esprime il mondo;"[6]
Partendo da una delle parole a cui siamo più familiari,
informatica, ci accorgeremo che molto di quello che diamo per
scontato della nostra visione del mondo (e quindi, del nostro
modo di interpretarlo, di capirlo e di affrontarlo) è il
risultato di una lenta evoluzione nel pensiero occidentale e,
soprattutto, del modo stesso di "pensare il
pensiero", modo che può essere fatto risalire
abbastanza convincentemente alle categorie mentali o, per usare
un'espressione cara all'ermeneutica, agli "schemi
d'interpretazione" del mondo classico greco-latino.
Dall'informatica all'idea platonica
Non per tediare più del necessario ma bensì per necessità di chiarezza e per avere un terreno di comune intendimento, daremo alcune definizioni di ordine generale che ci renderanno più chiaro come la cultura dei computer (l'informatica) sia strettamente (ma sottilmente) connessa alla tradizione filosofica-concettuale che più di tutte ha influenzato (creandola, si può dire) la cultura occidentale: quella inerente all'idea.
Oggigiorno è noto pressoché a tutti e sicuramente ai qui
presenti che la parola 'informatica' deriva dall'espressione infor-mazione
auto-matica (dal francese, M.Dreyfus 1962). Analizziamo
questi due termini: informazione e automatica.
Con il termine 'automatica' siamo soliti intendere (abbastanza pacificamente) 'acquisita, elaborata, memorizzata da macchine dotate di una certa autonomia riguardo all'intervento diretto dell'uomo'. Ma cosa significa 'macchina'? E cosa 'dotata di autonomia'?
Macchina deriva dal greco mechané (mhcanh) che a sua volta deriva da méchos (mhcoV), mezzo, rimedio, espediente [7]. La
definizione più generale di macchina è quella per cui essa è
vista come un insieme funzionale composto da parti chiaramente
definite, cioè da dei 'meccanismi', tale che le sue funzioni
(sia interne che esterne) si possano comprendere conoscendo le
parti che lo compongono e il modo in cui esse interagiscono
[8]. Ci preme far notare che non è affatto necessario che una
macchina debba essere esclusivamente fisica, cioè fatta
unicamente di leve e ruote dentate oppure solo di transistor,
flip-flop e cose del genere: si richiede che essa sia dotata di
parti interagenti in un 'meccanismo', cioè in un processo
funzionante [9]. Il concetto di macchina, così generalmente
espresso, sta ovviamente alla base delle interpretazioni
cosiddette 'meccanicistiche' che la scienza occidentale dà
dell'oggetto del proprio studio e ispira lo stesso concetto di
'modello teorico' di un fenomeno naturale (qualora di esso si
voglia dare una spiegazione, un'interpretazione cioè, causale e
meccanicistica [10], appunto). E' con naturalezza, quindi, che ci
colleghiamo con il concetto dato durante il corso dal Professore
Somalvico, di macchina come 'reificazione di un modello di un
fenomeno'.
Una macchina, d'altro canto, è autonoma quando ha in sé, nella propria struttura, o nella propria memoria, il proprio comportamento, cioè ciò che deve fare [11].
Ai fini della nostra trattazione un elaboratore [12] (nell'architettura di Von Neumann) è una perfetta macchina autonoma. Ma, alla luce di quanto detto, qual è la definizione più generale per elaboratore?
Un elaboratore è una macchina (sia fisica che 'processuale') costruita e progettata in modo tale che una particolare combinazione di sue modificazioni fisiche possa essere interpretato come un calcolo. D'altro canto un calcolo è un'operazione eseguita su simboli, cioè su qualcosa che rappresenta ciò che sta a indicare (ad esempio il simbolo 3 rappresenta il numero tre). Anche in questo caso l'etimologia ci rende più chiaro questo fondamentale nesso logico. Calcolo non deriva che dal latino calculus (a sua volta da calx, calce) che vuol dire 'sassolino'. Chi non si ricorda le primissime operazioni aritmetiche che ci coinvolsero nella prima classe delle elementari? Con le matite o con le nostre stesse dita, o certo avremmo potuto farlo anche con dei sassolini, cercavamo di capire che 3+2=5 e cioè che se a tre sassolini ne aggiungo due, alla fine ho cinque sassolini. Come la moderna pedagogia ben sa, il passo fondamentale nell'apprendimento dell'aritmetica da parte dei bambini non risiede nella correttezza del calcolo in sé (che potrebbe essere eseguito anche a memoria, dopo un po' di esercizio) ma bensì nella capacità del bambino di astrarre dall'esempio quantitativo le corrispondenti regole simboliche. In poche parole si richiede che il sassolino perda la sua natura materiale per divenire 'simbolo', semplice componente di un calcolo. Con la parola simbolo intendiamo infatti qualcosa che designa un'altra entità, distinta da sé (solitamente astratta) in virtù di una certa corrispondenza logica [13]. Nell'antica Grecia il simbolo (sumbolon) era nient'altro che un oggetto d'argilla che veniva spezzato in due dalla famiglia che ospitava uno straniero pellegrino: una metà veniva data all'ospite e l'altra metà veniva tenuta dal proprietario della casa. Veniva così stabilità una specie di relazione, di corrispondenza, che legava le due rispettive famiglie in un forte (sebbene invisibile) vincolo di riconoscenza e amicizia.
L'avere ora individuato l'importanza della logica e del ragionamento simbolico nella cultura dei computer (essi non funzionerebbero a prescindere da questi concetti...) rende maturo il momento di passare al cuore della questione: il processare simboli, poiché esso di fatto in-forma la struttura della macchina (sia essa fisica o logica), crea, o meglio, fa sorgere informazione [14]. E la parola informazione, dal momento che essa ha in sé molte e profonde connotazioni epistemologiche e gnoseologiche, è la parte della parola 'informatica' che può riservare il maggior numero di sorprese: sarà infatti cercando e trovando i nessi profondi che vi sono tra il concetto di informazione e quello di rappresentazione/idea che questa discussione avrà espletato il compito che si prefigge.
Nella lingua italiana il termine 'informazione' ha fondamentalmente quattro accezioni: una convenzionale, due tecniche e una che definiremo 'essenziale'. Non c'è una vera e propria differenza tra di esse ma bensì un diverso modo di affrontare e 'mettere in luce' quello che, evidentemente, è il medesimo fenomeno [15]. Convenzionalmente con tale termine si intende una notizia o un ragguaglio, qualcosa che si dà (o si cerca) per sapere o per venire a conoscenza di qualcosa. In ambito tecnico-scientifico si può distinguere tra la definizione data nel contesto della 'teoria dell'informazione' e quella più specificamente nota nell''Ingegneria dell'Informazione': per l'una vi si associa principalmente il concetto di segnale, di qualcosa cioè, che codificato opportunamente in un messaggio, trasmette (o porta con sé) della conoscenza [16]. Per l'altra si intende generalmente l'operando di particolari macchine (modelli) che elaborano, a loro volta, modelli, rappresentazioni del naturale [17].
Nella nostra discussione, invece, ci soffermeremo sull'accezione che abbiamo chiamato 'essenziale', volendo indicare con tale attributo semplicemente il fatto che essa, essendo etimologicamente vicina ad una millenaria tradizione concettuale, può indicare più facilmente delle altre l'essenza stessa della questione [18]. Secondo tale definizione essa é "l'atto o l'effetto dell'informare o dell'informarsi" [19].
Tale accezione trova una delle sue primissime (e autorevoli) attestazioni in Dante Alighieri (intorno al 1306: "Il movimento celestiale...dispone le cose...a ricevere alcuna informazione"). Va però ricordato che per 'informare' si intendeva allora una cosa leggermente diversa da quello che si intende oggi: egli intendeva propriamente in-formare, dare forma.
Era questo il significato originario latino, tant'è che l'informator era 'colui che organizza', mentre lo informator litterarum era il maestro che impartiva i primi elementi agli 'scolari' del II e III secolo dopo Cristo (e di fatto, modellava i suoi alunni, dava loro una prima forma...). Eppure se il mondo latino non fosse stato influenzato dalla cultura greca com'è stato, noi oggi non chiameremmo l'informatica... 'informatica' e preferiremmo l'espressione anglosassone 'computer science'. Infatti, dapprincipio, informatio indicava principalmente la 'raffigurazione' di qualcosa, nel senso concreto, fisico del termine, e cioè il suo disegno o anche semplicemente il suo 'schizzo'. Ancora oggi, poiché ci scorre ancora un po' di sangue latino nelle vene, quando pensiamo alla 'forma' di qualcosa, di un oggetto, pensiamo al suo aspetto esteriore, al 'com'é' piuttosto che al 'che cos'è', quasi addirittura al suo contorno, alla sua... silhouette.
L'assimilazione da parte della cultura latina di concetti e
idee peculiari del pensiero greco fu un processo evidentemente
lento e graduale ma si è soliti far risalire a Marco Tullio
Cicerone (I secolo a. C.) l'inizio di una stagione di grande
interesse da parte dell'élite culturale romana per il mondo
ellenico-ellenistico.
"Anche la rapidità della composizione delle sue opere
filosofiche sta a dimostrare che si tratta soprattutto di
compilazioni da fonti greche.[...] si tratta di
"ricucire" le membra lacerate del pensiero ellenistico,
per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa
nei confronti della società romana. [...] una costante e
accanita sperimentazione lessicale nella traduzione dei termini
greci, [...]. Risultato di questa sperimentazione fu
l'introduzione nel latino di molte parole nuove; Cicerone gettò
in tal modo le basi di quel lessico astratto destinato a divenire
patrimonio della tradizione culturale europea: per esempio qualitas
(poiòtes), quantitas (posòtes), essentia
(ousìa), e così via."[20]
Cicerone, quindi, si impegnò sistematicamente nello studio della cultura ellenica e cercò, nelle sue numerose opere, di esprimere le molte sottigliezze del pensiero filosofico greco per mezzo dei più concreti (e pragmatici) termini latini [21]. In particolare è soprattutto in quel periodo storico che informatio incominciò a designare un concetto fondamentale ai fini della nostra discussione, e cioè quello di 'rappresentazione mentale', idea. Con tale termine Cicerone cercò di tradurre letteralmente la corrispondente parola greca per 'forma', éidos (eidoV) [22], una parola che però serbava sottili ed evanescenti (soprattutto per noi, duemila anni dopo...) connotazioni semantiche. Spiegare tale termine alla luce di ciò che intendiamo oggi per forma sarebbe non solo riduttivo ma anche fuorviante (quella accezione è tradotta in greco dalla parola morfé (morfh)); del resto la somiglianza con il termine italiano 'idea' coglie certo qualche nesso tra questi due concetti ma lascia pur tuttavia nascosti quelli più profondi che risultano essere anche quelli più fertili e interessanti per una discussione sul 'conoscere' umano e artificiale.
La parola èidos deriva dal verbo èidon che significa sia 'vedere' [23], 'osservare' che, nella sua forma òida, 'conoscere', 'comprendere'. L'importanza della parola èidon risulta chiara se si considera quanto il nostro attuale concetto di 'pensare' sia diverso da quello che ne avevano gli antichi. Con le parole di Vernon Pratt:
"Non esiste nulla nel nostro modo moderno di pensare che
corrisponda alla 'forma'; ma, ad essere ancora più precisi,
nella schematizzazione pre-moderna non esisteva nulla che
corrispondesse pienamente al 'pensare'. Erano presenti i concetti
di 'vedere', 'contemplare', 'calcolare', 'sognare', 'ricordare',
'gustare' ed altri ancora, ma questi non venivano raccolti sotto
l'unica nozione di 'pensare'." [24]
L'importanza di tale termine risale certamente alla concezione di 'idea' che elaborarono prima Platone e poi il suo più famoso allievo, Aristotele, nelle loro rispettive concezioni del mondo e della realtà. Eidos deriva sì da 'vedere' ma "[...] nel linguaggio di Platone lo sguardo non è quello degli occhi, ma quello della conoscenza intellettuale; e l'aspetto e la forma non sono quelli delle cose sensibili, ma sono il significato dell'essere che [...] appare nello sguardo concettuale" [25]. Lo èidos, in parole povere, è ciò che rende un oggetto proprio il genere di oggetto che esso è. Se pensiamo ad una casa non pensiamo che essa sia la sua dimensione: ve ne sono di piccole o grandi. Non pensiamo neppure che essa sia ciò di cui è fatta: se la casa venisse demolita i materiali sarebbero gli stessi ma anziché una casa essi sarebbero un cumulo di macerie; in una casa cioè, c'è qualcosa in più dei materiali che la costituiscono: questo qualcosa in più che rende casa una casa è appunto la forma, l'idea di casa (noi diremmo forse che è la sua organizzazione, ma neppure un progetto architettonico é una casa...). Noi certo si può toccare, vedere un albero, quest'albero, ma non possiamo toccare, 'sentire' l'albero, l'idea di albero; eppure è con quella, mediante essa, che vediamo (nel senso di comprendiamo, pensiamo) sia quell'albero che tutti gli altri possibili. In altre parole l'idea è l'oggetto di una visione (o intuizione) intellettuale: "di contro al sensibile, molteplice e mutevole., l'idea rappresenta l'essenza intellegibile, sottratta al mutamento." [26]
Platone, inoltre, credeva che le idee, e solo le idee (le forme immutabili) fossero la vera realtà, mentre ciò che i sensi esperiscono fosse di secondaria importanza in quanto fallace, mera ombra. Diversamente dal suo maestro, Aristotele non pensò alle Idee come qualcosa di veramente esistente in un mondo oltre il pensiero (cioè di separato, altro, dal mondo sensibile...), ma bensì come creazioni della mente umana, come rappresentazioni che ci permettono di generalizzare e concettualizzare il mondo che ci circonda, quello stesso mondo che i sensi esperiscono in continuo divenire e perso in miriadi di particolari, l'uno differente dall'altro.
" L'idea [in Aristotele] non è una realtà privilegiata
e separata dal mondo ma 'la forma incorporata
indissolubilmente nell'unità dell'ente concreto" [27].
Per usare parole più semplici, potremmo dire che ogni ente,
cioè ogni cosa (ma propriamente, 'ogni cosa che è' ...) è un sinolo
(cioè una strettissima unione, una completa unità, un 'intero')
di materia e forma; ma delle due componenti la seconda ha un
ruolo di fondamentale priorità poiché la materia non si dà mai
senza la forma (e non viceversa), in quanto qualcosa di
completamente indeterminato, senza alcuna caratteristica (senza
neppure quella di non averne...), pura potenzialità resa
'reale', concreta, dal principio di determinazione operato dalla
forma. L'aspetto 'gnoseologico' (che è poi quello che ci
interessa di più, in questa sede) è sottolineato dallo stesso
Aristotele: "di ogni cosa si può parlare in quanto ha una
forma e non per il suo aspetto materiale in quanto tale"
[28], e cioè, niente di reale è immaginabile (pensabile) che
non sia determinato (cioè che non sia concepibile con o mediante
la sua forma...).
I fatti degni di nota, a questo punto sono due:
1) Innanzitutto il concetto di 'idea-forma' delle cose creava loro una dimensione non materiale, ma bensì mentale. Non è che, come si è anche detto, le cose acquistassero un loro 'spirito' o un'aura mistica immutabile ma bensì, per usare una metafora che spero chiara, diventavano opache alla luce della recezione sensoriale (che viene emanata dal soggetto, ancor più che dall'oggetto...) e diventavano così in grado di proiettare un'ombra, una loro immagine, una loro forma, sullo schermo 'mentale' dell'uomo. Con la sua visione del mondo, Platone, creava e sosteneva con grande efficacia (visto che ancora oggi la pensiamo essenzialmente come lui, e così la pensavano Aristotele, Descartes, etc.) il dualismo mentale/materiale. Questo dualismo è forse più potente (e comunque antecedente dal punto di vista logico e storico) a quello cartesiano di mente/corpo; tale dualismo instaura anche i poli intellegibile/percepibile, immutabile/diveniente e da ultimo, formale-simbolo/reale-significato, base di tutte le geometrie e matematiche.
2) Secondariamente la forma-idea di una cosa le fornisce un aspetto fondamentale di generalità. Non bisogna dimenticare, infatti, che la stessa parola italiana 'schema' deriva dal greco 'schma' (figura, maniera, forma, appunto)[29]. Soprattutto con Aristotele, le idee entrano nell'uomo in quanto suo modo particolare di conoscere, in quanto concetti, in quanto generalizzazioni (come il numero, la casa, la sfera, etc.) del mondo reale, che diviene, a sua volta, il mondo delle semplici istanze [30] di tali generalizzazioni. Nascono, per usare un'espressione colorita, gli stati discreti del mondo (che continua ad essere esperito dai sensi come un continuum 'informe'), e si rendono concettualmente disponibili i mattoni per una elaborazione simbolica (confinata nel nostro cervello, fino all'avvento dei primi calcolatori...) e logica del mondo. Nasce e si sviluppa appunto, ad opera di Aristotele, la logica, quale studio delle relazioni possibili tra concetti e tecnica per la creazione di proposizioni ed espressioni che dicano sempre di più e sempre più 'astrattamente' riguardo al mondo fisico.
L'idea di Aristotele, nonché il quadro concettuale e il pensiero di Platone, passarono sostanzialmente invariati attraverso i secoli, dai primi secoli dell'impero, per tutto il medioevo, fino all'inizio dell'età moderna. Tale concezione influenzò lo stoicismo, l'epicureismo, il neoplatonismo (in cui l'idea è vista come "oggetto interno dell'intelletto") e, attraverso le varie correnti (realiste, nominaliste, essenzialiste, etc.) della scolastica, costituì lo spazio concettuale in cui si mosse la cultura occidentale praticamente fino ai maturi sviluppi della scienza. Certo tale concezione ricevette parecchi contributi dalle varie filosofie che affrontavano di volta in volta le tematiche della conoscenza e del rapporto tra uomo e mondo 'esterno'; quelli più notevoli, in prospettiva gnoseologica, furono quelli datigli dalla logica stoica prima, e dal pensiero logico-matematico arabo, dopo (Averroè, Avicenna, etc.).
Tra i contributi forse più interessanti riguardo al nostro
argomento, vi è quello del filosofo Epicuro di Samo [31]. Ci
soffermeremo brevemente sul suo pensiero ("una commistione
singolare di ostinato empirismo, metafisica speculativa e
precetti intesi al raggiungimento di una vita tranquilla"
[32]) poiché la sua teoria della conoscenza risulta essere per
certi versi anticipatrice di ciò che chiameremo
(arbitrariamente) la 'svolta cartesiana'.
Dall'idea aristotelica alle "fantasie"
epicuree
L'esiguità delle opere che ci provengono direttamente da
Epicuro (sebbene avesse fama di essere stato uno dei filosofi
più 'prolifici' dell'antichità, le fonti migliori sul suo
pensiero sono Diogene Laerzio, Lucrezio, Seneca, Cicerone e
Plutarco) non ci impedisce di far risaltare quello che è il filo
conduttore di tutto l'epicureismo, e cioè (almeno nei suoi
aspetti più teorici) "l'impegno a contrapporre il dato
immediato dei sensi ai procedimenti logico-analitici propri della
metodologia platonica e aristotelica.[...] Epicuro ammise la
distinzione tra universale e particolare, ma a differenza di
Platone non riconobbe agli universali un'esistenza separata; né,
a quanto pare, condivise l'interesse, che era stato di
Aristotele, per le classificazioni secondo generi e specie."
[33] La teoria epicurea della conoscenza ha per fondamento la
percezione sensibile, in cui risiede il supremo criterio di
certezza: l'evidenza (enàrgheia). In tale dottrina si possono
notare alcuni aspetti che sembrano anticipare (in maniera
marginale) quella che sarà la moderna concezione di
oggetto/soggetto 'cartesiana' [34]: "tutti gli uomini hanno
sensazioni (aistheseis) e queste non si producono da se stesse,
ma sono prodotte da qualcos'altro [35]" esterno o interno
che sia (la fame, per esempio, ha una causa interna...). Come
dice lui stesso "è per la penetrazione in noi di
qualcosa che proviene dagli oggetti esterni che noi percepiamo...
le loro forme." [36]; ma la penetrazione di tali
oggetti nel soggetto conoscente non è puramente intellettiva:
quando, per esempio, noi sentiamo una campana che suona, pur
sentendo effettivamente la campana suonare, noi esperiamo
qualcosa che proviene dalla campana, cioè configurazioni
di atomi (èidola, eidwla, che deriva pur sempre da eidoV...) che si dipartono, proprio come
degli effluvi, dalla sua superficie esterna, così come da quella
di tutti gli oggetti sensibili. Tali effluvi, a meno che essi non
subiscano modificazioni della loro struttura durante la loro
'trasmissione' o a meno che noi stessi non li si interpreti
maldestramente a causa di preconcetti sbagliati (si pensi alle
illusioni ottiche), sono tali da produrre nel soggetto una rappresentazione
('phantasìa', fantasia) che è immagine fedele dell'oggetto.
In poche parole i cosiddetti 'errori dei sensi' sono dovuti alle
opinioni, ai giudizi e alle ipotesi che la ragione formula
nell'intento di oltrepassare o di prevedere i dati sensoriali. Le
rappresentazioni, d'altro canto, differiscono l'una dall'altra
(in termini di evidenza o nitidezza) e, inoltre, differiscono in
maniera importante dai 'giudizi', e cioè dall'identificazione
delle rappresentazioni con gli oggetti. Altro punto degno di
nota, che attesta la 'modernità' del pensiero di Epicuro è che
le rappresentazioni, per quanto evidenti e distinte siano, non
sono ancora 'conoscenza' in quanto è ancora necessario un
movimento intellettuale con cui esse vadano classificate e
distinte l'una dalle altre. Questo avviene attraverso le
cosiddette prolépseis (prolhpseiV),
o 'prenozioni' e cioè con dei concetti generali o
rappresentazioni mentali che sono prodotte dal ripetersi e dalla
conservazione in memoria di rappresentazioni sensibili (cioè
sensazioni) evidenti e simili tra loro. In altre parole: vedendo
diversi alberi, ce ne formiamo uno 'schema rappresentativo', nel
quale inquadriamo ogni futura immagine simile; tali 'preconcetti'
costituiscono allora una specie di memoria della nostra
esperienza del mondo e sono ciò che ci permette di anticipare o
prevedere sensazioni future (sono cioè 'conoscenza' del mondo).
Conoscere cioè, è confrontare le sensazioni nuove
(rappresentazioni sensibili) a confronto con le prenozioni
(rappresentazioni mentali consolidate, ciò che noi comunemente
chiamiamo 'concetti'), "e tutti i nostri giudizi circa gli
oggetti muovono da queste esperienze memorizzate che
classifichiamo facendo uso dei segni linguistici" [37].
Dall'idea alla mente
Alla luce di quello che abbiamo finora detto, 'pensare' può essere inteso come un 'manipolare rappresentazioni, concetti, proposizioni ' [38]; tutto ciò, poi, si potrebbe ridire un 'manipolare idee', o meglio ancora, un 'vedere le idee'. Questa ultima considerazione ci porta naturalmente alla scolastica: 'vedere', infatti, per Tommaso d'Aquino, era "afferrare la forma di una cosa", capirla (noi diremmo 'rappresentarsela nella mente') [39]. Viene ora riconosciuta, nella facoltà intellettiva, una duplice funzione: astrarre le rappresentazioni sensibili dalle determinazioni particolari del divenire e ricevere (vedere) la rappresentazione astratta, in modo da conoscerla dotata della sua 'universalità concettuale'.
A questo punto è fondamentale capire che secondo la visione dell'Aquinate e quindi di gran parte della filosofia medioevale 'ortodossa', la relazione tra soggetto e oggetto non era quella che intercorre tra un manipolatore e una cosa manipolata (tra, propriamente, un oggetto e un soggetto), ma era piuttosto una relazione tra un intelletto e una cosa che l'intelletto ha capito dell'oggetto, appunto la sua forma, la sua realtà immateriale, la sua realtà intelligibile.
"L'intelletto agente, quindi, rende intelligibili le cose, 'astraendo' le forme intelligibili delle cose dalla materia in cui esse sono individualizzate. L' 'astrazione' è il conoscere stesso, ed è per l'astrazione che l'anima, come dice Aristotele, "è in certo modo tutte le cose": l'anima è le cose stesse, non nel senso che nell'anima esista la materia delle cose, ma nel senso che, mediante l'astrazione, esiste nell'anima la forma delle cose, astratta da esse mediante l'intelletto agente."[40]
In un certo senso, cioè, non si era ancora consolidata, fino al Rinascimento, una relazione moderna tra oggetto e soggetto; questa fu più volte abbozzata o semplicemente intuita, come in Epicuro, ma più spesso idea e rappresentazione, pur sottintendendo concetti simili [41], rimanevano 'sostanzialmente' diversi.
La graduale trasformazione di un concetto nell'altro, riveste, secondo autorevoli critici (Pratt, Rorty, etc.), un'importanza decisiva per la nascita della scienza moderna e delle attuali concezioni di 'conoscenza' e 'pensiero'. Fu con Hobbes, Cartesio e gli empiristi inglesi (Locke, Berkeley, etc.) che l'idea, da fondamento ontologico si trasformò gradualmente in 'contenuto di pensiero'. In Hobbes si dà, per la prima volta, il concetto di 'pensiero' come 'operazione sulle rappresentazioni'; In Descartes l'idea (e con essa intendeva, come in una celebre definizione di Locke, 'qualunque cosa sia oggetto di comprensione quando l'uomo pensa') era tutto ciò che è concepito dalla mente, sia che la provenienza di essa fosse l'esterno (idea sensibile o 'avventizia'), l'interno di noi stessi ('fattizia', autocostruite), o che essa fosse indipendente tanto dalla nostra sensibilità che dall'immaginazione ('innata').
"Cartesio considerava la mente una coscienza soggettiva contenente idee che corrispondevano (o talvolta non riuscivano a corrispondere) a ciò che esisteva nel mondo."[42] Non si diede, però, una nuova nozione di forma ma piuttosto "si costruì un nuovo punto d'osservazione, da cui tutto appariva in modo differente. [...] si giunse a concepire in modo nuovo la relazione fra l'essere umano e il mondo: il che significa, di per sé, vedere le cose con una nuova prospettiva. L'innovazione del diciassettesimo secolo è costruita dalla nostra visione moderna dell'essere umano come entità distinta dal 'mondo', costituendo così il tipo di cosa che deve avere una qual sorta di 'relazione' con il mondo. [...] Nella percezione, è ora l'occhio della mente che effettua l'atto del 'vedere'. [...] Il mondo è reso accessibile nella percezione solo per mezzo di rappresentazioni. [...] La nozione di 'idea' divenne il nuovo concetto fondamentale. Dove la visione [precedente] aveva visto la percezione in termini di una persona che condivide la forma dell'oggetto visto, in base alla nuova prospettiva l'oggetto è rappresentato di fronte alla mente mediante un'idea; le idee sono entità 'mentali', gli unici elementi con cui la mente possa interagire direttamente, ma rappresentano le cose non-mentali, [...] e dal momento che il pensare richiede manipolazione, le idee sono quello che manipoliamo" [43]
Questa nuova concezione di idea fu dunque la 'conditio sine qua non' per la nascita di quella che Husserl chiama la concezione oggettivista della scienza 'stile galileiano'. Ma non solo: in seguito a questa 'svolta', si suole dire (con linguaggio efficacemente colorito) che nacque, nella cultura occidentale, un concetto relativamente inaudito, almeno nella sua nuova accezione: il concetto di mente. Oggi siamo tanto affezionati e abituati a questa idea che ci sembra assai strano ci possa essere stato un tempo, nell'antichità, in cui essa non sia stata considerata come lo è ora; chi mai, ai giorni nostri, dubiterebbe di avere una mente (o, ancor più, di essere una mente...)? Eppure tale convinzione si basa tanto sul senso comune quanto su ciò che nel senso comune è riuscito, col tempo, a filtrare del concetto di 'res cogitans' cartesiana. In questo 'nuovo' ambiente, fittizio, dentro le nostre teste, gli uomini del Rinascimento misero "sensazioni fisiche e percettive, le verità matematiche, le regole morali, l'idea di Dio [...] e tutto il resto di ciò che noi oggigiorno denominiamo 'mentale'" [44]. Tra le altre cose, venne così costruito 'l'ambiente ideale' per la coltivazione della matematica (il cui sviluppo fu stimolato anche da importanti cambiamenti nella forma dei rapporti d'affari e dalla nuova stagione delle esplorazioni marittime), e cioè della regina del paradigma del 'pensiero come rappresentazione'.
"Il sorgere della matematica [...] offrì un modello non solo per la nuova categoria del pensare in generale, ma anche, grazie al suo rigore e formalismo, per il tipo speciale di pensiero noto come 'ragionamento' - la cui meccanizzazione costituì l'ambizione di Leibniz."[45]
La matematica e il suo notevole sviluppo, anche in seno alle
discipline più sperimentali quali la fisica e la chimica,
sarebbe stata destinata a rinforzare il paradigma cognitivo
basato sull'idea del 'pensare come manipolazione di
rappresentazioni mentali', fino alla creazione di un secondo
paradigma, sicuramente già implicito nel precedente. In esso,
grazie alle rivoluzionarie idee di Babbage e Boole, divenne
ipotizzabile anche un modo di pensare inteso come un 'operare su
simboli' e quindi divenne concepibile la sua meccanizzazione ad
opera di macchine 'calcolatrici' autonome: l'approccio
computazionale alla mente era così fondato e destinato a
produrre, nella stagione aperta nel 1956 con la presentazione, al
congresso di Dartmouth, del manifesto programmatico
dell'Intelligenza Artificiale, il suo più ambizioso progetto.
"Nasciamo una volta sola, due volte non è possibile. E poi bisogna non esistere più per sempre. Tu, invece, che non sei padrone del tuo domani, rimandi l'occasione; la vita può trascorrere durante il tuo indugio, e ciascuno di noi muore senza aver goduto la vera serenità."
[Epicuro, Gnomologio Vaticano, 14]
Riassunto: Il termine 'informatica' contiene in sè,
attraverso il concetto ivi implicito di 'informazione', il
nocciolo più profondo di ciò che costituisce la cultura e il
modo di pensare occidentale. Questo nocciolo è costituito dalla
dualità fondamentale tra intellezione e sensazione [46], che
risale fino alla più antica speculazione filosofica greca (si
pensi anche al concetto di Logos). Tale dualità, che per certi
versi è corrispondente a quella quella tra mentale e ciò che la
mente 'sente' come esterno a sè, è il sostrato per tutti gli
altri dualismi che 'formano' il pensiero occidentale: quello
cartesiano di res cogitans, res extensa (mente/corpo), quello
gnoseologico rappresentazione/mondo reale, e quello
'computazionale' simbolo/significato. In essi si danno quegli
spazi intellettuali e concettuali che rendono concepibile e
possibile lo sviluppo e la realizzazione di macchine
rappresentazionali, e cioè delle 'macchine dell'informazione'.
Federico Cabitza
studente di Ingegneria Informatica al Politecnico di Milano
email: fedecabitza@iname.com
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NOTE